Che bella parola “casa”.
Nel mio personale “dizionario affettivo delle cose” sta al primo posto.
Lo è sempre stata sul podio, saldamente. Prima di pronunciare il “sì” matrimoniale ho pronunciato un “sì voglio abitare qui”.
Quando quel “sì” vestito di bianco è diventato un “non più” vestito di grigio, la mia casa c’era. C’è. C’è per me e mia figlia. C’è per me e il mio lavoro.
Se potessi descriverla come una persona, mi rendo conto dell’iperbole tra queste righe ma voglio arrivare ad un punto chiave, la mia casa sarebbe la signora anziana nera con i capelli grigi che interpreta l’Oracolo in Matrix.
Di quello che dice si capisce poco, quasi nulla, ma fa biscotti, ti lascia parlare e ti interroga ai bivi della tua vita. Sì, è decisamente così la mia casa. Parla, mi interroga e profuma di buono (anche se di biscotti non se ne fanno mai ma ne parliamo tantissimo io e mia figlia, giuro).
Dopo la separazione ho litigato con lo spazio in casa. Da un punto di vista logistico ed emotivo al vantaggio di avere ante e mobili vuoti è seguito lo svantaggio di lavorare con gli spazi vuoti. E’ stato un lavoro complicato e duro. Un passaggio in cui ho prima riempito, poi svuotato, poi riempito e via così fino a trovare una sistemazione definitiva o quasi, quella attuale. Gli spazi vuoti, ora lasciati volontariamente, mi ricordano che nulla è per sempre e che la parzialità è il segreto per godersi molte cose nella vita.
Ma se è vero che ho litigato con gli spazi e poi ho fatto pace è anche vero che mentre litigavo mi rendevo conto che c’era una stanza che subiva invece un processo opposto: imperturbabile continuava a riempirsi e a sembrare sempre più piccola. La stanza di mia figlia. Che cresce velocemente e che ha molti giochi che sparpaglia secondo il principio del “se vedo tutto gioco meglio”. Mia figlia cresce e la sua stanza rimpicciolisce.
Quante cose accadono sotto i tetti.
La casa, intesa come spazio per stare al sicuro, è un luogo che favorisce la vicinanza, crea legami, li stringe, annoda sentimenti e svela comportamenti. Quasi che un tetto sopra la testa avesse questo potere magico di unire le persone con fili invisibili e dare un posto ad ogni cosa (esclusi i giocattoli).
Sono del parere che non esista piaga peggiore delle madri che consentono ai figli di prendere posti che non gli competono. Non sto evidentemente parlando di bambini che giocano con la lavatrice infilandocisi dentro (se è spenta che male c’è!). Sto parlando di bambini che ambiscono a occupare un posto avventuroso e misterioso che si chiama lettone e che trovano la complicità del genitore spalancata come un portone.
Ho una figlia piccola che dopo la separazione ha interpretato lo spazio vuoto nel lettone come uno spazio in cui infilarsi.
Dopo aver pronunciato in maniera chiara “io ho il mio letto, tu hai il tuo, non ho bisogno di compagnia la notte, voglio dormire tranquilla” di fronte ad una bimbetta alta 1 metro, ho pensato che forse poteva essere una buona idea dopo le parole passare ai fatti. Delimitando gli spazi.
Sulla porta di camera sua ho attaccato le lettere del suo nome e sulla porta di camera mia le lettere del mio. Ogni volta che arrivava la richiesta di dormire insieme indicavo le porte delle nostre camere. Sorridevo. Piccola cosa, ma posso garantire che funziona. Funziona meno con un febbrone a 40° che richiede assistenza notturna ogni venti minuti, ma non si può chiedere troppo alle lettere adesive!
Le lettere fanno quello che possono, il resto credo che tocchi a me. Come quando lavoro da casa, praticamente tutti i giorni.
Lavorare da casa non è il sogno che tutti pensano. L’ho scelto, da vent’anni, non cambierei, ma dalla nascita di mia figlia ad oggi se esiste il vantaggio di non prendersi ferie dal lavoro e stressarsi per cercare al volo una babysitter e uscire di casa forse con il cuore a coriandoli, quando si ammala la mia creatura, esiste lo svantaggio non percepito dall’esterno di dover lavorare ugualmente, con un personaggio che pronuncia “mamma” almeno un migliaio di volte e lo fa ogni volta che sto per iniziare un task importante o sono in un processo di concentrazione per il quale ho chiesto aiuto anche all’Oracolo di Matrix per intenderci. Benedetti siano gli anticorpi e la volontà delle madri di non supporre che quella continua richiesta di attenzione da parte dei figli sia amore. Ditelo in giro: è noia. Ma benedetta sia anche la noia, generatrice di idee creative e autonomia.
Quante cose succedono sotto i tetti.
Casa è anche un luogo che accoglie. Amici, parenti, bambini, altri genitori, piante, doni. La separazione ha permesso di aprire la porta d’ingresso al nuovo, all’Altro. La mia casa e l’Altro hanno un buon rapporto, ci sono sufficienti sedie, desiderio di dividere il companatico per citare Jonny Dorelli e in ogni caso… un posto lo si trova! Sì anche per i biscotti che l’Altro vuol portare.
*testo pubblicato nel libro “smALLhome – abitare nelle famiglie a geometria variabile” 2016 ed. Cinquesensi
*questo testo è stato gentilmente interpretato da Ugo La Pietra con un’opera esposta in Triennale a Milano il 19 marzo 2019